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Cchiú ncoppa se saglie, cchiú bbutto se piglia

Quanto più sopra si sale più violenta sarà la caduta, così anche nella vita, più in alto si sale più gravose saranno le responsabilità e i sacrifici.
Da I proverbi napoletani a cura di Gianni Polverino, Presidente presso Napoli Centro Storico. Proverbi e Tradizioni
Il proverbio che oggi ci è proposto, si accompagna a un altro, che è più che famoso:
"Chi troppo in alto sal, cade sovente precipitevolissimevolmente"
Motto che si trova per la prima volta nel poema La Celidora, ovvero il governo del Malmantile, di Andrea Agostino Casotti, del 1734.
Un detto che invita alla prudenza e a evitare di aspirare a un troppo, che stroppia (o storpia) prima o poi, come anche si dice e che si legge nel dizionario dei proverbi italiani di Carlo Lapucci.
Un concetto richiamato dall'allocuzione attribuita al filosofo Lucio Anneo Seneca:
"È perverso comunque tutto ciò che è troppo."
Un di troppo che purtroppo, se se ne scusa il bisticcio, accertò di essere anche lui alla corte di Nerone, un eccesso agli occhi dell'imperatore che eliminò levandosi di mezzo, togliendosi la vita.
Mai esagerare, nella vita, attenendosi a quell'aurea mediocritas, attribuita al poeta antico Orazio, ovvero la migliore condizione che si possa immaginare, tanto da equipararla nel suo valore all'oro, uno dei più preziosi tra i metalli, perché se è facile andare agli estremi, il difficile è restare fermi in mezzo.
La storia è piena di personaggi che hanno raggiunto l'apice del potere, del successo e della notorietà, cadendo rovinosamente dalle stelle delle posizioni conseguite, alle stalle di condizioni opposte.
Un tema, quello presentato dal proverbio, che mette in luce l'eccesso, un sostantivo che deriva dalla parola latina ex-cèssus, ovvero "andare oltre", un'azione dalla quale è sempre prudente l'astenersi.
Un concetto che va a tutto discapito dell'imperativo "Osa sempre e non pentirti mai" e di quello che in proposito asserì Oscar Wilde:
“Ciò che non abbiamo osato, abbiamo certamente perduto.”
Che fin troppo osò e mal glie ne incolse, per tutto ciò che perse.
Né fu da meno quello che successe a Che Guevara, a cui si attribuisce la frase:
“E se vale la pena rischiare io mi gioco anche l'ultimo frammento di cuore.”
Che perfezionò giocandosi la vita.
Un adagio che fa sorgere il ricordo dell'aneddoto di Damocle, che sembra essere stato contenuto, per la prima volta, nell'opera perduta dello storico Timeo di Tauromenio (356-260 a.C.), Storia di Sicilia. Tramandato da Cicerone, nelle sue Tusculanae disputationes (libro V, capitoli 61-62), e ripreso successivamente anche da altri scrittori quali Orazio, Persio e Boezio.
Secondo il racconto di Cicerone, Damocle perorò di fronte a Dionigi I, che governava come tiranno Siracusa, quanto egli fosse estremamente fortunato, potendo disporre di un grande potere e di una grande autorità, del tutto irraggiungibili dagli uomini comuni.
Allora il tiranno gli propose di prendere il suo posto per un giorno, un invito che Damocle accettò più che entusiasta.
La sera stessa si tenne un banchetto, durante il quale Damocle incominciò a tastare con mano i piaceri dell'essere un uomo potente: circondato dal lusso, con cibi raffinati in tavola e bellissimi ragazzi intorno a servirlo, facendogli provare dei piaceri che mai avrebbe immaginato, esaltandolo vieppiù per il potere che glieli permetteva.
Solo al termine della sontuosa cena, notò appesa sopra la sua testa una spada legata solo ad un esile crine di cavallo, che Dionigi aveva fatto sospendere sul suo capo, perché capisse che la sua posizione di tiranno lo esponeva continuamente a grandi minacce per la sua incolumità.
Per quanto Damocle fosse ambizioso, va detto a suo merito che non era stupido, nel rendersi conto della pericolosità alla quale sarebbe stato esposto, nella situazione che tanto aveva bramato, facendogli perdere immediatamente il gusto per il potere e il lusso che lo circondava e spingendolo a chiedere al tiranno di dar termine allo scambio, non desiderando più di essere così fortunato, come riteneva che fosse l'organizzatore del banchetto.
L'espressione "spada di Damocle" che in un primo tempo ha messo il luce il rischio che accompagna chi troppo pretende dalla vita e non si contenta di quanto più modestamente può ottenere, senza incorrere in pericoli, è stata eletta a simbolo della precarietà in cui versano tutti gli esseri umani, da quelli che possono apparire più agiati e fortunati, a quelli che si trovano in condizioni opposte e spesso miserevoli.
Un tema che ci invita a non invidiare mai nessuno, perché qualsiasi persona che ci appare agiata, o potente, o fortunata, è possibile che il filo che regge la spada che incombe su di lui, stia per rompersi da un momento all'altro.
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